Enduro
Africa Eco Race 2024, la riscossa delle bicilindriche
Era il 2002 quando Fabrizio Meoni vinse la Dakar con la KTM 950. Da allora, solo moto leggere hanno primeggiato sul lac Rose. Fino a pochi giorni fa, quando l’Aprilia Tuareg 660 ha vinto al debutto
Quanti anni sono trascorsi dall’ultima vittoria di una moto bicilindrica in un grande raid africano, o un grande raid in generale? Ve lo diciamo subito noi: 22. Era il 2002 quando Fabrizio Meoni vinceva la Arras (nella puntina a nord della Francia) – Dakar in sella alla possente e leggendaria KTM 950 LC8. Nel 2003 fu la volta di Richard Sainct, ma a bordo della più leggera e maneggevole LC4 da 660 cc; Meoni, sempre con la 950, fu terzo, nel 2004 fu sesto, e nel 2005 maledetto tornò anche lui a correre con la monocilindrica. Da allora, di bicilindrici non si sentì più parlare. I pignoli tireranno ora fuori l’Aprilia RXV, che con Chaleco Lopez nel 2010 raggiunse addirittura il podio con tre vittorie di tappa, ma la bicilindrica di Noale era per cilindrata, pesi e ingombri assimilabile a una mono.
Fino a pochi giorni fa, quando Jacopo Cerutti e la sua Aprilia Tuareg 660 ufficiale, bicilindrica parallela frontemarcia, hanno trionfato all’Africa Eco Race 2024, dopo un dominio non così netto ma con una condotta di gara comunque impeccabile, che li ha visti al comando dalla prima all’ultima tappa. E il caso del bravo Cerutti non è isolato, perché il podio è stato monopolizzato dalle bicilindriche, con le Yamaha Ténéré 700 di Alessandro Botturi e Pol Tarres rispettivamente seconda e terza. La domanda che sorge ora è opposta: che fine hanno fatto le 450 cc? La prima, la KTM dello svizzero Alexandre Vaudan, è quarta, staccata di 4 ore e 29 minuti.
Che succede? Siamo improvvistamente tornati indietro di vent’anni? Nessun mistero, ci sono ragioni ben precise a spiegare gli eventi delle scorse settimane tra Marocco, Mauritania e Senegal. Prima di tutte: il percorso. A detta dei ragazzi di Aprilia con cui abbiamo potuto parlare, le tappe della AER 2024 erano state studiate proprio per dare un vantaggio alle bicilindriche. Vale a dire un itinerario meno contorto, ove il peso aggiuntivo non penalizzi più di tanto e si possa invece sfruttare quella trentina di cavalli in più rispetto alle 450. Certo, inutile studiare tratte autostradali, tanto il limite di velocità di 150 chilometri l’ora è lì per tutti, non importa che sui chilometrici piattoni africani le plurifrazionate potrebbero sfiorare o superare i 200. Quindi sì, tracce non eccessivamente intricate, ma nemmeno troppo veloci, non sarebbe servito a nulla.
E poi il secondo, non ce ne vogliano i conduttori di 450: il livello dei piloti. Tolti i primi tre, professionisti veri che vivono in funzione della motocicletta e delle gare, gli altri vanno inquadrati su un piano differente. Di buone manette ce n’erano, intendiamoci, ma competere con Cerutti, Botturi e Tarres era fuori portata. Giovanni Gritti, endurista che non ha bisogno di presentazioni ma non più un ragazzino, poi lo svizzero Vaudan, il francese Attilio Fert, tutta gente con tante gare e pure Sei Giorni alle spalle, ma mai in grado di impensierire i pro là davanti.
Menzionerei anche i nostri Francesco Muratori e Andrea Gava, cui la classifica finale non dà molto credito ma che a sprazzi hanno fatto vedere ottime cose. Per entrambi poca o nessuna esperienza d’Africa, ma qualche tappa tra i primissimi l’hanno conclusa, segno che del buono c’è. Bravissimo anche Marco Fontana, che è invece riuscito ad essere costante e a concretizzare un sesto assoluto finale, ma lui, anche se di un altro sport, è un atleta vero e la forma mentis di certo non gli manca. Comunque, anche lui era al primo raid, impensabile potesse fare di più.
Un discorso a parte lo merita Joan Pedrero, unico altro vero professionista oltre i primi tre, ma inevitabilmente limitato dall’improbabile motocicletta con cui si è presentato al via: una Harley-Davidson Pan America 1250 completamente di serie, con frecce, specchi e pedane passeggero. Lui, a parità di mezzo meccanico, sarebbe certamente stato davanti, forse a tutti. Ma la grossa crossover di Milwaukee Joan l’ha portata al traguardo, e questa è già una vittoria.
AFRICA ECO RACE, QUALE FUTURO?
Ecco allora uno spunto di riflessione interessante: in che direzione si sta muovendo l’Africa Eco Race? Sembra, e dico sembra da seduto alla mia scrivania senza aver seguito la gara di persona, che si stia in un certo modo differenziando dalla Dakar e più che in passato. Pare un qualcosa di più abbordabile per l’appassionato che sogna la Parigi – Dakar (quella storica) e può permettersi di correre su quelle piste antiche e polverose. Che stia diventando la Dakar degli amatori?
Non si possono, al contrario, ignorare le parole di un provato Cesare Zacchetti risalenti ad appena poche ore fa, lui impegnato a quella ufficiale di Dakar: troppo impegnativa per chi non sia un top rider, per riassumere. E allora forse potrebbe avere senso che l’AER diventi un qualcosa di più fattibile per il pilota normale, dopotutto voler raggiungere il lago rosa è qualcosa per nostalgici più che per super professionisti, e riuscire a farlo senza soffrire come bestie potrebbe aprire a nuovi orizzonti. D’altro canto, l’entrata in scena di case ufficiali come Aprilia e Yamaha potrebbe spingere ad una maggiore professionalizzazione di tutto il pacchetto; in fin dei conti far correre, e vincere, una moto su cui si punta commercialmente è il massimo che ad una competizione si possa chiedere. Da connazionali, speriamo che la Tuareg riesca a beneficiare di questa spinta.
Non possiamo dirvi cosa ci sia nei piani e nelle menti degli organizzatori, non possiamo dirvi cosa succederà né chi sarà al via l’anno prossimo, ma possiamo attendere trepidanti e far scattare già il conto alla rovescia per l’Africa Eco Race 2025.
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