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XOffRoad Interview: Joel Smets. Il leone delle Fiandre
il 07/08/2013 in News
Un uomo di ferro, che guidava le prime mostruose quattro tempi. Uno che dal 1990 al 2004 non ha mai saltato un GP. Oggi è tornato nel paddock

"Il leone delle Fiandre" non è un titolo d'effetto
che ci siamo inventati, ma è il vero soprannome che il titanico
Joel Smets si è guadagnato. Capite che quando uno si
merita un appellativo del genere, deve essere tosto per forza.
E Joel lo è, basta guardarlo: il fisico possente e lo sguardo
in cui brucia ancora la voglia di vincere sono chiari segnali di
quello che è stato un pilota dallo stile impetuoso, aggressivo,
al limite dell'irruenza. Chi lo conosce bene, sostiene che queste
erano caratteristiche non solo della sua guida, ma anche
e soprattutto della sua personalità. Insomma, Joel deve essere
stato una testa calda che era meglio non far arrabbiare.
Nato e cresciuto nella campagna belga (della parte fiamminga),
ha esordito nel Mondiale Cross tardi, quando aveva già
vent'anni. Era il 1989. Nel decennio che va dal 1993 al 2003 ha
poi raggiunto innumerevoli traguardi: 5 titoli mondiali e 57 Gran
Premi vinti con le temibili 500... che in alcuni casi arrivarono a
essere le mostruose 650 quattro tempi.
Nel 2004, dopo il quinto alloro, Smets lascia la KTM per salire sulla Suzuki ufficiale, ma un infortunio al ginocchio e una successiva grave infezione lo tagliano fuori per tutto il campionato. Torna l'anno seguente, riuscendo anche a vincere due manche, ma un nuovo infortunio al ginocchio pone fine, a 36 anni, alla sua carriera a tempo pieno da crossista. Dopo una coda da endurista (nel 2006 partecipa alla Sei Giorni, nel 2007 porta al debutto la BMW G 450 X) diventa il coriaceo team manager della squadra belga per il Motocross delle Nazioni. Quest'anno Joel è tornato alla grande nel circus del Cross che conta, nel ruolo di riders coach per la squadra ufficiale Suzuki.
Joel, da quando bazzico il paddock, ho sempre sentito una strana storia su di te: pare che un giorno tu fossi andato ad allenarti in una pista belga, trovandola pero chiusa. A questo punto avresti scaricato la moto dal furgone, per poi sollevarla a mani nude e scaraventarla oltre la recinzione. Dopo di che avresti scavalcato per allenarti come da programma. E vero?
(Ride, ndr) Mi spiace deluderti, ma credo che questa sia una leggenda. In realta, pero, c'e una storia piuttosto simile che risale agli anni attorno al 2000. Ti racconto: e inverno e in Belgio il tempo e cosi brutto che da settimane non riesco ad allenarmi. Decido di scendere in Italia. Carico tutto sul camper e parto: provo a Mantova, ma nulla, chiusa, scendo e ne provo altre, chiuse anche quelle, vado ancora piu a sud, verso Ancona, poi da Attilio Pignotti, nulla da fare. La voglia di allenarmi e alle stelle e, su consiglio di Andrea Camattini (Racing Service Airoh, ndr) risalgo verso Salsomaggiore. Ma una volta giunto li scopro che non solo la pista e chiusa, ma anche coperta da diversi centimetri di neve. Mi innervosisco e faccio capire chiaramente che non mi importa nulla della neve. Morale della favola, mi aprono la pista e alleno tutto il giorno! Lo strato di neve caduto aveva preservato il fondo, che non era per nulla scivoloso. Alla fine la cosa piu difficile e stata arrivare fino a li con il camper, che slittava in continuazione, ma ero troppo determinato.
Da questa stagione ricopri un ruolo importante in seno al team Suzuki ufficiale: puoi spiegarci in cosa consiste il tuo lavoro?
La definizione esatta per quello che faccio e riders coach per i due piloti ufficiali MX1. In poche parole, il mio ruolo e di tirare fuori il meglio da entrambi, secondo le loro possibilita. Come? Seguendo la loro preparazione in tutte le sue forme: dal programma di allenamento fisico (insieme al preparatore del team) a quello in moto (che decidiamo insieme su base mensile), alla gestione della gara, alla tecnica, fino alla parte piu strettamente psicologica, legata alla motivazione e allo stato mentale.
Clement Desalle e Kevin Strijbos non sono proprio i ragazzi più semplici del paddock da gestire: che tipo di approccio utilizzi? Che tipo di rapporti hai con loro? Ascoltano i tuoi consigli, o ordini che dir si voglia?
Dobbiamo sottolineare che tanto Clement quanto Kevin sono già dei top rider. E con i top rider la chiave per andare d'accordo è non parlare troppo. Hanno già il loro bagaglio di esperienza alle spalle, per cui, con entrambi, ho impostato tutto sul dialogo. Parliamo di tutto e discutiamo di tutto, ma questo non significa che impongo il mio parere o li forzo a seguire una strada che non sentono come propria. L'altro elemento fondamentale è l'approccio. Clement e Kevin sono due persone diverse, per cui anche io devo rapportarmi con loro in maniera diversa. Desalle è più chiuso e introverso e mal sopporta la parte del suo lavoro legata alle pubbliche relazioni: incontri con i giornalisti, servizi fotografici, impegni con gli sponsor e con i fan… diventa subito insofferente! Lui preferisce concentrarsi sulla gara. Che è giusto, ma quello che cerco di fargli capire è che un top rider, oggi, non può e non deve limitarsi solo a quello. Con Clement bisogna procedere a piccoli passi e aspettare che sia lui ad aprirsi. Kevin, invece, è più comunicativo e il risultato è che passo più tempo con lui che con il suo compagno di squadra: ma questo solo perché è lui stesso a cercarmi di più.
A Sevlievo abbiamo visto una schermaglia tra i due… ti sono venuti i sudori freddi? Hai pensato che avrebbero potuto buttarsi giù a vicenda e vanificare così quello che per entrambi è stato poi un ottimo risultato? Ci sono ordini di scuderia all'interno del team?
Ah, è stato un duello davvero emozionante, specialmente in Gara1! Si sono passati diverse volte, ma sempre in maniera corretta e penso proprio che anche loro si siano divertiti. No, in realtà non ho avuto paura che si buttassero a terra a vicenda. Sono due piloti professionali e consapevoli dei limiti: una caduta avrebbe danneggiato entrambi, oltre che la squadra. Hanno lottato, ma in maniera sportiva e corretta, con pieno rispetto dell'avversario. Per quanto riguarda gli ordini di scuderia, penso che sia troppo presto per parlarne, siamo solo al quinto GP della stagione. Certo, se più in là uno dei due dovesse essere in lizza per il titolo, allora non nascondo che potrebbero esserci delle priorità che verranno comunicate ai piloti.
Alla fine non ce l'hai fatta a rimanere lontano dal Motocross per lungo tempo... ma raccontaci cos'hai fatto nel periodo tra il tuo ritiro ufficiale e ora.
In realtà non sono mai uscito completamente dal giro. Certo, una volta smesso di correre mi sono dedicato di più alla mia vita privata e alla famiglia. Abbiamo anche rilevato una taverna - De Witte Haas, La Lepre Bianca - che mia moglie gestisce con il mio aiuto. Ma, per il resto, mi sono mantenuto impegnato con lo sport: ho rivestito (e rivesto tuttora) il ruolo di team manager per la squadra belga al MXoN, ho corso diverse gare internazionali, ho fatto il commentatore per un'emittente belga e mi sono dedicato a un progetto per lo sviluppo dello sport in Belgio che tuttora seguo. Si chiama Top Sport Fiandre e si prefigge lo scopo di aiutare i giovani davvero meritevoli nelle varie discipline.
Sei stato testimone di vent'anni di gare. C'è qualcosa che ti manca del Motocross dei tuoi tempi e qualcosa che invece pensi sia meglio oggi?
Nel corso degli anni molto è stato fatto per incrementare il livello del Cross. Parlo della sicurezza in pista, ad esempio, e della promozione a livello televisivo... il che, mi rendo conto, è fondamentale per la raccolta degli sponsor. Quello che posso dirti è che, di contro, rimpiango i tempi in cui c'erano i premi gara e il rimborso spese per i qualificati. Ti faccio un esempio: al mio primo GP, a Valkenswaard nel 1989, solo per il fatto di essermi qualificato, ho guadagnato, me lo ricordo ancora, 860 franchi svizzeri (circa 700 euro, ndr), che al tempo erano dei gran bei soldini, soprattutto per un ventenne che aveva le tasche vuote e che aveva fatto solo 30 km da casa per correre il GP!.
Cosa mi dici dell'evoluzione delle moto? Pensi che il pilota possa ancora fare la differenza? In che termini?
Questa è una domanda a cui mi è facile rispondere. Sono convinto che il pilota possa ancora fare, e faccia, la differenza. Le moto si sono evolute e sono diventate più efficaci, assottigliando le differenze di prestazioni tra i mezzi standard e quelli ufficiali, ma la vera differenza in pista la fanno la manetta e la determinazione del pilota. Penso che se mettessimo Tony Cairoli su una moto non ufficiale, vincerebbe in ogni caso.
Hai vinto 5 titoli mondiali e 57 Gran Premi… qual è stato il momento più bello della tua carriera?
Ce ne sono stati molti, ma i più belli in assoluto sono state tutte le prime volte: quando mi sono qualificato, quando ho vinto un GP, quando ho vinto un Mondiale. La prima volta ha sempre un sapore speciale, irripetibile. Anche se poi vincere gli altri Mondiali non è che mi abbia fatto schifo!.
Di contro, hai anche subìto diversi infortuni e avuto qualche problema di salute… Qual è stato il momento più tosto che hai dovuto affrontare?
Guarda, tutti ricordano i miei ultimi due anni che, da questo punto di vista, sono stati i più travagliati: gli infortuni alle ginocchia e la conseguente infezione che mi hanno poi portato al ritiro. Si tende però a dimenticare che, in 14 anni di attività, non ho mai, e dico mai, saltato un Gran Premio. Credo che anche questo, a modo suo, sia un record mondiale. Dal 1990 al 2004 ho sempre preso parte a ogni GP, in qualsiasi condizioni fisica mi trovassi. Anche riguardo alle ragioni del mio ritiro, devo confessarti che in realtà hanno riguardato di più l'aspetto mentale che quello fisico. Mi sono trovato a un punto in cui, al cancelletto di partenza, con il cartello dei quindici secondi esposto, mi sono chiesto: ma cosa ci faccio qui? È stato questo il vero shock da superare. Ero preparato ad affrontare il dolore fisico, ma non ad accettare di non avere più la motivazione per vincere. Di non sentire più bruciare, dentro di me, quella voglia di dare il 200% in ogni singolo momento. È stato questo che mi ha spiazzato a livello psicologico, il vero 'demone' con cui ho dovuto fare i conti.
Nel 2001 Stefan Everts ha cominciato a emergere nella classe regina. Quale era il vostro rapporto? Le lotte in pista tra di voi, nei primissimi anni del nuovo millennio, fanno parte della leggenda: ma la rivalità che vedevamo si esauriva in pista o perdurava anche fuori?
Il nome di Stefan aveva già cominciato a 'girare' negli anni precedenti, solo che lui era in 250 e io in 500, per cui, in realtà, non ci eravamo mai scontrati direttamente. Devo dire però che tutto il parlare attorno a questo fenomeno cominciava a innervosirmi, per cui non vedevo l'ora di batterlo in pista. Abbiamo avuto delle belle battaglie, qualche volta ho vinto io e qualche volta ha vinto lui, ma sempre all'insegna del massimo rispetto reciproco. Non posso dirti che eravamo amici, perché tra due rivali così come lo eravamo noi non ci può essere amicizia. Però siamo sempre stati ai party di fine stagione l'uno dell'altro e, come ti dicevo, ci rispettavamo tanto in pista quanto fuori.
E ora che entrambi ricoprite un ruolo di prestigio?
Esattamente lo stesso. Ancora oggi io voglio battere lui tanto quanto lui vuole battere me e questo è quello che facciamo: lottiamo ora come allora per vincere, e se vinceranno i suoi ragazzi, la birra gliela offrirò io, se vinceranno i miei sarà lui a offrirla a me.
Hai corso per una Casa italiana nel 1994. Un'avventura cominciata in sordina con i fratelli Vertemati, che hanno sviluppato un prototipo fatto a mano. Una piccola opera d'arte made in Italy con la quale, al suo debutto, sei riuscito a siglare una splendida doppietta nel secondo GP della stagione. Hai poi concluso terzo al Mondiale, conquistando un totale di 4 vittorie di manche...
Ah, bei tempi quelli! Ho una storia carina da raccontarti. Era l'inverno del '93: Guido e Alvaro Vertemati, rotti i rapporti con Husaberg, dovevano preparare la moto per la stagione successiva, una moto nuova, fatta da loro. Li chiamo per sapere quando sarebbe stata pronta per i primi test, e mi riferiscono che avrei potuto provarla a gennaio. Richiamo a gennaio e mi rimandano a febbraio e poi ancora di un altro paio di settimane… a quel punto comincio a preoccuparmi, la data del primo GP si stava avvicinando e io non avevo ancora, non dico provato, ma nemmeno visto la moto che avrei dovuto usare! Insomma, per farla breve, sono riuscito a provare questo famigerato mezzo una sola volta, a Malpensa, il martedì antecedente il primo GP: una sola volta, ma è stato amore a prima vista! Me la ricordo come se fosse ieri: verde militare, completamente nuova, telaio, motore, tutto. Era potente, veloce, si guidava bene. Insomma, arriviamo a Payerne, in Svizzera, per la prima gara e tac, subito pole position! Tutti super galvanizzati! Arriva la domenica: Gara1. Ricordo che c'era neve sulla pista: si abbassa il cancelletto e parto in testa, comando i primi due giri, mi giro e non vedo nessuno dietro di me. Poi un problema al carburatore mi blocca il comando del gas e devo ritirarmi… quando sono tornato ai box Alvaro era così arrabbiato che si è rotto un dito del piede dando un calcio a una cassa che avevamo sotto la tenda! Ci credevamo così tanto… ma non abbiamo dovuto attendere molto, perché al GP successivo ho siglato una splendida doppietta.
Sei il pilota che ha vinto di più nella storia della 500. Qual era il tuo segreto per domare una bestia così potente e un po' pericolosa?
Questa è una domanda interessante. Vedi, le 500 due tempi prima e le 650 quattro tempi poi, erano realmente dei mostri. Estremamente potenti e pericolose. Bastava un niente per sprigionare una potenza difficile da controllare e da indirizzare e, quindi, un nulla per farsi male. C'è da dire che io ho cominciato a correre in moto piuttosto tardi. Avevo 17 anni e… indovina qual è stata la mia prima moto? Una 500 appunto. Ho dovuto quindi abituarmi subito a prestare attenzione, a essere prudente e a non esagerare. E, soprattutto, a guardare bene la pista, a studiarne ogni punto per poter scegliere le traiettorie più lineari e, così, sfruttare appieno la potenza che avevo sotto di me senza pagarne le conseguenze in termini di affaticamento fisico. È stato questo che mi ha aiutato a dominarle.
Joel Smets ora. Sei un uomo soddisfatto come persona e come sportivo, o pensi che ci sia ancora qualcosa che devi conquistare?
Altra bella domanda. Come sportivo sono pienamente soddisfatto e orgoglioso di tutto quello che ho raggiunto e di come l'ho raggiunto. Come uomo, sono certo che si possa e si debba sempre migliorare. Voglio diventare un marito e un padre sempre migliore, così come un eccellente riders coach. Ma, soprattutto, non voglio pensare troppo avanti e godermi ogni singolo istante della vita presente. Le sfide di oggi sono quelle che ti rendono migliore domani.
Nel 2004, dopo il quinto alloro, Smets lascia la KTM per salire sulla Suzuki ufficiale, ma un infortunio al ginocchio e una successiva grave infezione lo tagliano fuori per tutto il campionato. Torna l'anno seguente, riuscendo anche a vincere due manche, ma un nuovo infortunio al ginocchio pone fine, a 36 anni, alla sua carriera a tempo pieno da crossista. Dopo una coda da endurista (nel 2006 partecipa alla Sei Giorni, nel 2007 porta al debutto la BMW G 450 X) diventa il coriaceo team manager della squadra belga per il Motocross delle Nazioni. Quest'anno Joel è tornato alla grande nel circus del Cross che conta, nel ruolo di riders coach per la squadra ufficiale Suzuki.
Joel, da quando bazzico il paddock, ho sempre sentito una strana storia su di te: pare che un giorno tu fossi andato ad allenarti in una pista belga, trovandola pero chiusa. A questo punto avresti scaricato la moto dal furgone, per poi sollevarla a mani nude e scaraventarla oltre la recinzione. Dopo di che avresti scavalcato per allenarti come da programma. E vero?
(Ride, ndr) Mi spiace deluderti, ma credo che questa sia una leggenda. In realta, pero, c'e una storia piuttosto simile che risale agli anni attorno al 2000. Ti racconto: e inverno e in Belgio il tempo e cosi brutto che da settimane non riesco ad allenarmi. Decido di scendere in Italia. Carico tutto sul camper e parto: provo a Mantova, ma nulla, chiusa, scendo e ne provo altre, chiuse anche quelle, vado ancora piu a sud, verso Ancona, poi da Attilio Pignotti, nulla da fare. La voglia di allenarmi e alle stelle e, su consiglio di Andrea Camattini (Racing Service Airoh, ndr) risalgo verso Salsomaggiore. Ma una volta giunto li scopro che non solo la pista e chiusa, ma anche coperta da diversi centimetri di neve. Mi innervosisco e faccio capire chiaramente che non mi importa nulla della neve. Morale della favola, mi aprono la pista e alleno tutto il giorno! Lo strato di neve caduto aveva preservato il fondo, che non era per nulla scivoloso. Alla fine la cosa piu difficile e stata arrivare fino a li con il camper, che slittava in continuazione, ma ero troppo determinato.
Da questa stagione ricopri un ruolo importante in seno al team Suzuki ufficiale: puoi spiegarci in cosa consiste il tuo lavoro?
La definizione esatta per quello che faccio e riders coach per i due piloti ufficiali MX1. In poche parole, il mio ruolo e di tirare fuori il meglio da entrambi, secondo le loro possibilita. Come? Seguendo la loro preparazione in tutte le sue forme: dal programma di allenamento fisico (insieme al preparatore del team) a quello in moto (che decidiamo insieme su base mensile), alla gestione della gara, alla tecnica, fino alla parte piu strettamente psicologica, legata alla motivazione e allo stato mentale.
Clement Desalle e Kevin Strijbos non sono proprio i ragazzi più semplici del paddock da gestire: che tipo di approccio utilizzi? Che tipo di rapporti hai con loro? Ascoltano i tuoi consigli, o ordini che dir si voglia?
Dobbiamo sottolineare che tanto Clement quanto Kevin sono già dei top rider. E con i top rider la chiave per andare d'accordo è non parlare troppo. Hanno già il loro bagaglio di esperienza alle spalle, per cui, con entrambi, ho impostato tutto sul dialogo. Parliamo di tutto e discutiamo di tutto, ma questo non significa che impongo il mio parere o li forzo a seguire una strada che non sentono come propria. L'altro elemento fondamentale è l'approccio. Clement e Kevin sono due persone diverse, per cui anche io devo rapportarmi con loro in maniera diversa. Desalle è più chiuso e introverso e mal sopporta la parte del suo lavoro legata alle pubbliche relazioni: incontri con i giornalisti, servizi fotografici, impegni con gli sponsor e con i fan… diventa subito insofferente! Lui preferisce concentrarsi sulla gara. Che è giusto, ma quello che cerco di fargli capire è che un top rider, oggi, non può e non deve limitarsi solo a quello. Con Clement bisogna procedere a piccoli passi e aspettare che sia lui ad aprirsi. Kevin, invece, è più comunicativo e il risultato è che passo più tempo con lui che con il suo compagno di squadra: ma questo solo perché è lui stesso a cercarmi di più.
A Sevlievo abbiamo visto una schermaglia tra i due… ti sono venuti i sudori freddi? Hai pensato che avrebbero potuto buttarsi giù a vicenda e vanificare così quello che per entrambi è stato poi un ottimo risultato? Ci sono ordini di scuderia all'interno del team?
Ah, è stato un duello davvero emozionante, specialmente in Gara1! Si sono passati diverse volte, ma sempre in maniera corretta e penso proprio che anche loro si siano divertiti. No, in realtà non ho avuto paura che si buttassero a terra a vicenda. Sono due piloti professionali e consapevoli dei limiti: una caduta avrebbe danneggiato entrambi, oltre che la squadra. Hanno lottato, ma in maniera sportiva e corretta, con pieno rispetto dell'avversario. Per quanto riguarda gli ordini di scuderia, penso che sia troppo presto per parlarne, siamo solo al quinto GP della stagione. Certo, se più in là uno dei due dovesse essere in lizza per il titolo, allora non nascondo che potrebbero esserci delle priorità che verranno comunicate ai piloti.
Alla fine non ce l'hai fatta a rimanere lontano dal Motocross per lungo tempo... ma raccontaci cos'hai fatto nel periodo tra il tuo ritiro ufficiale e ora.
In realtà non sono mai uscito completamente dal giro. Certo, una volta smesso di correre mi sono dedicato di più alla mia vita privata e alla famiglia. Abbiamo anche rilevato una taverna - De Witte Haas, La Lepre Bianca - che mia moglie gestisce con il mio aiuto. Ma, per il resto, mi sono mantenuto impegnato con lo sport: ho rivestito (e rivesto tuttora) il ruolo di team manager per la squadra belga al MXoN, ho corso diverse gare internazionali, ho fatto il commentatore per un'emittente belga e mi sono dedicato a un progetto per lo sviluppo dello sport in Belgio che tuttora seguo. Si chiama Top Sport Fiandre e si prefigge lo scopo di aiutare i giovani davvero meritevoli nelle varie discipline.
Sei stato testimone di vent'anni di gare. C'è qualcosa che ti manca del Motocross dei tuoi tempi e qualcosa che invece pensi sia meglio oggi?
Nel corso degli anni molto è stato fatto per incrementare il livello del Cross. Parlo della sicurezza in pista, ad esempio, e della promozione a livello televisivo... il che, mi rendo conto, è fondamentale per la raccolta degli sponsor. Quello che posso dirti è che, di contro, rimpiango i tempi in cui c'erano i premi gara e il rimborso spese per i qualificati. Ti faccio un esempio: al mio primo GP, a Valkenswaard nel 1989, solo per il fatto di essermi qualificato, ho guadagnato, me lo ricordo ancora, 860 franchi svizzeri (circa 700 euro, ndr), che al tempo erano dei gran bei soldini, soprattutto per un ventenne che aveva le tasche vuote e che aveva fatto solo 30 km da casa per correre il GP!.
Cosa mi dici dell'evoluzione delle moto? Pensi che il pilota possa ancora fare la differenza? In che termini?
Questa è una domanda a cui mi è facile rispondere. Sono convinto che il pilota possa ancora fare, e faccia, la differenza. Le moto si sono evolute e sono diventate più efficaci, assottigliando le differenze di prestazioni tra i mezzi standard e quelli ufficiali, ma la vera differenza in pista la fanno la manetta e la determinazione del pilota. Penso che se mettessimo Tony Cairoli su una moto non ufficiale, vincerebbe in ogni caso.
Hai vinto 5 titoli mondiali e 57 Gran Premi… qual è stato il momento più bello della tua carriera?
Ce ne sono stati molti, ma i più belli in assoluto sono state tutte le prime volte: quando mi sono qualificato, quando ho vinto un GP, quando ho vinto un Mondiale. La prima volta ha sempre un sapore speciale, irripetibile. Anche se poi vincere gli altri Mondiali non è che mi abbia fatto schifo!.
Di contro, hai anche subìto diversi infortuni e avuto qualche problema di salute… Qual è stato il momento più tosto che hai dovuto affrontare?
Guarda, tutti ricordano i miei ultimi due anni che, da questo punto di vista, sono stati i più travagliati: gli infortuni alle ginocchia e la conseguente infezione che mi hanno poi portato al ritiro. Si tende però a dimenticare che, in 14 anni di attività, non ho mai, e dico mai, saltato un Gran Premio. Credo che anche questo, a modo suo, sia un record mondiale. Dal 1990 al 2004 ho sempre preso parte a ogni GP, in qualsiasi condizioni fisica mi trovassi. Anche riguardo alle ragioni del mio ritiro, devo confessarti che in realtà hanno riguardato di più l'aspetto mentale che quello fisico. Mi sono trovato a un punto in cui, al cancelletto di partenza, con il cartello dei quindici secondi esposto, mi sono chiesto: ma cosa ci faccio qui? È stato questo il vero shock da superare. Ero preparato ad affrontare il dolore fisico, ma non ad accettare di non avere più la motivazione per vincere. Di non sentire più bruciare, dentro di me, quella voglia di dare il 200% in ogni singolo momento. È stato questo che mi ha spiazzato a livello psicologico, il vero 'demone' con cui ho dovuto fare i conti.
Nel 2001 Stefan Everts ha cominciato a emergere nella classe regina. Quale era il vostro rapporto? Le lotte in pista tra di voi, nei primissimi anni del nuovo millennio, fanno parte della leggenda: ma la rivalità che vedevamo si esauriva in pista o perdurava anche fuori?
Il nome di Stefan aveva già cominciato a 'girare' negli anni precedenti, solo che lui era in 250 e io in 500, per cui, in realtà, non ci eravamo mai scontrati direttamente. Devo dire però che tutto il parlare attorno a questo fenomeno cominciava a innervosirmi, per cui non vedevo l'ora di batterlo in pista. Abbiamo avuto delle belle battaglie, qualche volta ho vinto io e qualche volta ha vinto lui, ma sempre all'insegna del massimo rispetto reciproco. Non posso dirti che eravamo amici, perché tra due rivali così come lo eravamo noi non ci può essere amicizia. Però siamo sempre stati ai party di fine stagione l'uno dell'altro e, come ti dicevo, ci rispettavamo tanto in pista quanto fuori.
E ora che entrambi ricoprite un ruolo di prestigio?
Esattamente lo stesso. Ancora oggi io voglio battere lui tanto quanto lui vuole battere me e questo è quello che facciamo: lottiamo ora come allora per vincere, e se vinceranno i suoi ragazzi, la birra gliela offrirò io, se vinceranno i miei sarà lui a offrirla a me.
Hai corso per una Casa italiana nel 1994. Un'avventura cominciata in sordina con i fratelli Vertemati, che hanno sviluppato un prototipo fatto a mano. Una piccola opera d'arte made in Italy con la quale, al suo debutto, sei riuscito a siglare una splendida doppietta nel secondo GP della stagione. Hai poi concluso terzo al Mondiale, conquistando un totale di 4 vittorie di manche...
Ah, bei tempi quelli! Ho una storia carina da raccontarti. Era l'inverno del '93: Guido e Alvaro Vertemati, rotti i rapporti con Husaberg, dovevano preparare la moto per la stagione successiva, una moto nuova, fatta da loro. Li chiamo per sapere quando sarebbe stata pronta per i primi test, e mi riferiscono che avrei potuto provarla a gennaio. Richiamo a gennaio e mi rimandano a febbraio e poi ancora di un altro paio di settimane… a quel punto comincio a preoccuparmi, la data del primo GP si stava avvicinando e io non avevo ancora, non dico provato, ma nemmeno visto la moto che avrei dovuto usare! Insomma, per farla breve, sono riuscito a provare questo famigerato mezzo una sola volta, a Malpensa, il martedì antecedente il primo GP: una sola volta, ma è stato amore a prima vista! Me la ricordo come se fosse ieri: verde militare, completamente nuova, telaio, motore, tutto. Era potente, veloce, si guidava bene. Insomma, arriviamo a Payerne, in Svizzera, per la prima gara e tac, subito pole position! Tutti super galvanizzati! Arriva la domenica: Gara1. Ricordo che c'era neve sulla pista: si abbassa il cancelletto e parto in testa, comando i primi due giri, mi giro e non vedo nessuno dietro di me. Poi un problema al carburatore mi blocca il comando del gas e devo ritirarmi… quando sono tornato ai box Alvaro era così arrabbiato che si è rotto un dito del piede dando un calcio a una cassa che avevamo sotto la tenda! Ci credevamo così tanto… ma non abbiamo dovuto attendere molto, perché al GP successivo ho siglato una splendida doppietta.
Sei il pilota che ha vinto di più nella storia della 500. Qual era il tuo segreto per domare una bestia così potente e un po' pericolosa?
Questa è una domanda interessante. Vedi, le 500 due tempi prima e le 650 quattro tempi poi, erano realmente dei mostri. Estremamente potenti e pericolose. Bastava un niente per sprigionare una potenza difficile da controllare e da indirizzare e, quindi, un nulla per farsi male. C'è da dire che io ho cominciato a correre in moto piuttosto tardi. Avevo 17 anni e… indovina qual è stata la mia prima moto? Una 500 appunto. Ho dovuto quindi abituarmi subito a prestare attenzione, a essere prudente e a non esagerare. E, soprattutto, a guardare bene la pista, a studiarne ogni punto per poter scegliere le traiettorie più lineari e, così, sfruttare appieno la potenza che avevo sotto di me senza pagarne le conseguenze in termini di affaticamento fisico. È stato questo che mi ha aiutato a dominarle.
Joel Smets ora. Sei un uomo soddisfatto come persona e come sportivo, o pensi che ci sia ancora qualcosa che devi conquistare?
Altra bella domanda. Come sportivo sono pienamente soddisfatto e orgoglioso di tutto quello che ho raggiunto e di come l'ho raggiunto. Come uomo, sono certo che si possa e si debba sempre migliorare. Voglio diventare un marito e un padre sempre migliore, così come un eccellente riders coach. Ma, soprattutto, non voglio pensare troppo avanti e godermi ogni singolo istante della vita presente. Le sfide di oggi sono quelle che ti rendono migliore domani.
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