Moto
Regine del deserto: Yamaha vs Honda
SONO LE MOTO ARRIVATE IN PRIMA E TERZA POSIZIONE ALL’AFRICA ECO RACE, ENTRAMBE GIAPPONESI E GUIDATE DA PILOTI ITALIANI: ALESSANDRO BOTTURI E SIMONE AGAZZI. LE ABBIAMO MESSE IN MANO A JACOPO CERUTTI, UNO CHE SA DI COSA PARLA QUANDO SI TRATTA DI MOTO DA DESERTO. SCOPRIAMOLE INSIEME A LUI
Uno dei pregi dell’Africa Eco Race è che i mezzi di assistenza non devono attraversare un oceano intero per tornare in patria. E così le moto di Alessandro Botturi e Simone Agazzi, fresche di podio all’AER 2019, una manciata di giorni dopo la conclusione della gara sono già a nostra disposizione per essere esaminate a fondo. Due Rally al 100%, diverse per tanti aspetti ma accomunate dal fatto che la base di partenza sia per entrambe una Enduro: la Yamaha WR450F nel caso della moto di Alessandro Botturi e la Honda CRF450RX per quella di Simone Agazzi.
Mentre le scarichiamo dai furgoni il tipico e fortissimo profumo della benzina africana mi invade le narici, e se non fosse per la gelida temperatura mi sembrerebbe di essere sul Lago Rosa a testarle 10 minuti dopo la fine della gara. La WR di Botturi è praticamente una moto Factory, con parti speciali che arrivano direttamente dal reparto Rally di Yamaha Motor France; la CRF di Agazzi è invece il frutto di un progetto ideato e sviluppato per intero da Simone stesso, che in due anni di gare e test ha creato una moto efficace ed affidabile. Sì, perché il fatto che siano arrivate in fondo a una gara lunga e impegnativa come l’AER dimostra come entrambe le moto abbiano raggiunto un’ottima affidabilità, specie dal punto di vista del motore.
VELOCI MA AFFIDABILI
Mentre scattiamo le foto statiche ho modo di analizzare a fondo queste due special, che nonostante usino telaio e forcellone standard non hanno molto in comune con le loro sorelle Enduro. Scopro che l’affidabilità di cui parlavamo è stata raggiunta anche grazie all’adozione di un radiatore dell’olio supplementare (e di un secondo filtro olio nel caso della Honda), che permettono di aumentare la quantità di olio motore e di raffreddare il blocco motore in maniera migliore. Anche il circuito di raffreddamento conta su radiatori e ventole maggiorati su entrambe le moto: e mentre sulla Honda la ventola si attiva in automatico sopra ai 100°C, sulla Yamaha va azionata manualmente con uno switch posto sopra un bellissimo schermo LCD, in posizione ben visibile sopra all’airbox e che permette di monitorare la temperatura dell’acqua. Per quanto questo renda facile tenere i valori della WR sotto controllo, nelle fasi concitate di gara a mio parere è rischioso fare affidamento sullo switch manuale: basta infatti un colpo accidentale al comando che la ventola si spegne, e tanti saluti al raffreddamento supplementare con i rischi che ciò comporterebbe.
Tante sono le modifiche nel propulsore Yamaha per cercare quei CV in più che nel deserto fanno sempre comodo: i tecnici si sono concentrati su biella, pistone, ingranaggi del cambio e soprattutto sull’alimentazione, dove la centralina GET (a 10 livelli di intervento del Traction Control) e il doppio iniettore fanno volare questa WR, rapportata 15/51 di finale alla velocità di 180 km/h circa come punta massima: mica male!
La CRF450 Rally Limited Edition di RS Moto, invece, è pensata per la vendita al pubblico e punta perciò sul principio “poca spesa e tanta resa”: il motore è quello standard della Enduro, ma con rapporti finali 14/45 che la lanciano a una massima velocità di 170 km/h circa. Curioso come su entrambe le moto sia rimasto il comando frizione a cavo, forse per “sentire” meglio tra le dita un possibile surriscaldamento dei dischi in mezzo alle dune.
Ad abbeverare questi cavalli ci pensano i 32 litri di benzina presenti su entrambe le moto, divisi in 20 litri all’anteriore e 12 al posteriore. Una scelta e un bilanciamento differenti rispetto a Husqvarna e KTM, che montano serbatoi da 16 litri dietro e 15 litri davanti. Vedremo una volta in sella quale soluzione sarà più azzeccata. Per quanto riguarda i materiali, sulla Yamaha i serbatoi sono in plastica trasparente, mentre sulla Honda sono in alluminio all’anteriore e carbonio al posteriore (nella moto in vendita saranno entrambi in alluminio). Unico difetto in quest’ultimo caso è il fatto di non poter vedere in trasparenza il livello di carburante rimasto: un dettaglio che a dire il vero fa più comodo a chi punta alla classifica e vuole portarsi il minimo di benzina per risparmiare peso, piuttosto che all’amatore. Altra differenza è che sulla Honda i serbatoi si svuotino contemporaneamente, mentre sulla Yamaha c’è il classico switch che permette di scegliere in qualsiasi momento quale dei due serbatoi utilizzare. La soluzione Honda è molto pratica perché rende la moto sempre perfettamente bilanciata e facile da usare, ma i piloti più esperti storcerebbero il naso, visto che con lo switch al manubrio possono scegliere quale serbatoio svuotare prima e, di conseguenza, regolare il bilanciamento dei pesi in base al terreno di gara. Simili anche gli impianti frenanti, con l’accoppiata pompa/pinza Nissin sia all’anteriore che al posteriore e un disco maggiorato a 300 mm davanti.
BASTA CHIACCHIERE, SI PARTE
Finalmente si monta in sella! La posizione di guida della Honda è molto comoda, e come in tutte le Rally si sta leggermente più alti rispetto alle Enduro tradizionali. Apprezzo subito il bottoncino, che la fa partire in un attimo. Unico neo l’ingombro dei serbatoi anteriori, che si sentono molto larghi tra le ginocchia e all’interno degli stivali, soprattutto da seduti: all’inizio ho dovuto farci un po’ l’abitudine. La Yamaha invece ha una sella molto dura: sembra da Cross e mi fa sentire ancora più in alto con il busto. Come avrà fatto il “Bottu” a correre per 400/500 km al giorno con una sella così dura? Inoltre l’avviamento a pedale mi costringe a scalciare un po’ per farla partire. Gli ingombri dei serbatoi sono invece molto contenuti e non si sentono tra le gambe, né da seduti né in piedi.
Considerando che tra Simone e Alessandro ci sono circa 25 kg di differenza e che io mi trovo esattamente nel mezzo, una volta in movimento sento tra le due moto delle nette differenze, soprattutto al posteriore. La Honda di Si mone ha una taratura abbastanza soft delle sospensioni, almeno per il mio peso; ma nonostante nelle buche più profonde l’ammortizzatore vada a pacco, non scalcia mai e dona una grande confidenza sul lento e sullo sconnesso, senza sbacchettate improvvise: segno che è stato fatto un bel lavoro sulle Showa di serie.
La Yamaha invece resta molto alta dietro e tende a essere più nervosa e reattiva sulle buche, ma penso che con il maggior peso di Alessandro questa sensazione diminuisca molto, facendo lavorare meglio il mono KYB. La WR ha comunque una taratura generale più sostenuta della Honda, come conferma il comportamento della forcella WP da 52 che si comporta molto bene assorbendo alla grande gli ostacoli e, al tempo stesso, donando sostegno sulle buche in velocità. Un po’ più faticoso risulta l’ingresso sulle curve strette (a dire il vero poche nel deserto...) dove la Honda non teme rivali. Devo anche dire che sulle KTM e Husqvarna 2019 è stato fatto un grosso passo in avanti in quanto a maneggevolezza, e ora non hanno nulla da invidiare a queste due Jap derivate dall’Enduro.
FILOSOFIE DIVERSE
Entrambi i motori hanno un’ottima potenza massima, testimoniata dalle elevate velocità di punta. Grazie ai pezzi factory, il motore Yamaha ha però qualcosa in più, e gli interventi eseguiti si sentono soprattutto in accelerazione: l’erogazione è corposa già dai bassi regimi e unita all’ottima rapportatura del cambio - con il mix tra le prime tre marce del Cross e le altre due dell’Enduro - porta oltre i 100 all’ora molto in fretta. La Honda ha meno spinta ai bassi e va usata con qualche giro motore in più, ma anche qui la potenza non manca e la rapportatura del cambio è azzeccata. La prima marcia è molto lunga su entrambe, infatti Simone e Alessandro mi hanno raccontato di averla usata parecchio sulle dune più piccole. Con il cambio a 6 rapporti di KTM/Husqvarna, per fare un confronto, in gara la prima non si usa mai se non nei (rari) tratti più difficili; altro vantaggio delle moto austriache è la frizione idraulica, che rende molto più difficile farle spegnere a bassa velocità. In termini di erogazione, il motore KTM è ottimo ma per rendere al meglio predilige gli alti regimi, un po’ come la Honda, mentre con la Yamaha si riesce a usare maggiormente il sottocoppia.
Mentre testavo i freni, ottimi su entrambe, ho abbassato lo sguardo notando una diversa posizione della strumentazione: più verticale e quindi più facile da leggere da seduti sulla WR del Bottu, più orizzontale e dunque meglio leggibile in piedi sulla CRF di Agazzi.
Abbiamo insomma scoperto due moto simili per natura, ma molto diverse fra loro all’atto pratico: la Yamaha è una moto da pilota, curata come una special e nata per puntare alla vittoria. La Honda è invece una moto performante ma guidabile da chiunque.
INTERVISTA A I RIDER
Ragazzi, ma che gara è questa Africa Eco Race (AER) confrontata con la Dakar?
Alessandro Botturi: “Sono due cose diverse. La AER è una corsa dove conta ancora la navigazione e ha un ritmo più tranquillo, perché non puoi permetterti di andare a manetta e di sbagliare. Facevamo anche 100 km senza way point, per farti capire l’importanza della navigazione. Alla Dakar, sei vuoi stare con il gruppo davanti devi spingere davvero forte: vai via a fuoco tutto il giorno, e più che navigare punti a seguire le tracce e a smanettare. Qui invece devi essere attento, anche perché non c’è davvero nessuno, non come in Sudamerica. In Africa sei davvero solo: sei tu, la tua moto e qualche cammello in giro. Alla Dakar ci sono piloti che arrivano nelle prime dieci posizioni, ma che a livello di navigazione fanno molta fatica. Prendi Short, con cui mi sento: lui fatica a navigare, e lo dico con cognizione avendolo visto nei Rally del Merzouga o del Marocco… ma alla fine quest’anno ha chiuso la Dakar in quinta posizione, perché da supercrossista non si è certo dimenticato come si gira il gas. Alla AER le speciali sono molto più lunghe, speciali da quasi 500 km ma comunque scorrevoli e con un ritmo alto, anche superiore ai 100 km/h di media. Alla Dakar la speciale di 300 km sul lato fisico ti prova tanto, perché spingi tutto il tempo. Qui invece uscivo molto stanco di testa, perché per aprire una speciale di 500 km senza nessun segno in terra ci devi credere. E poi sai come sono fatto: io non mi giro, cerco di navigare perché mi piace. E infatti penso che nei Rally debba contare più la navigazione della manetta”.
Simone Agazzi: “Concordo su tutto. E aggiungo che il fascino del territorio africano è tutta un’altra cosa rispetto al Sudamerica… Quando arrivi in Mauritania ti viene la pelle d’oca. In Sudamerica è più una ‘gara Tom Tom’, mentre all’AER si naviga davvero”.
Cosa potrebbe attrarre le aziende a puntare sull’Africa Eco Race?
AB: “È una domanda difficile. Prima di tutto la Dakar ha un nome e un’organizzazione immensi, mentre la AER è a gestione più familiare. Penso comunque che l’edizione di quest’anno abbia aperto gli occhi anche ad altre aziende, perché ha avuto un buon seguito facendo riscoprire il fascino dell’avventura: le Case infatti stanno iniziando a pensare di mandarci a correre qualche pilota. Non l’intera squadra ma qualcuno sì”.
SA: “La gestione qui è molto più easy e con l’organizzatore puoi parlare. L’AER di sicuro ha un’organizzazione che si può ampliare, e se dovessero arrivare gli ufficiali sono sicuro che questo succederebbe. Quel che potrebbe attrarre le aziende è senza dubbio la logistica, perché è molto più semplice fare una partenza in moto, come quando la Parigi-Dakar partiva da Parigi, che non spedire casse su casse. Poi considerando che tutti i team sono europei, senza la spedizione si ha un mese abbondante in più per organizzarsi. E quei 500 km di strada per mettere la moto sulla nave sono impagabili, respiri il profumo di una volta: siamo partiti da Montecarlo per andare a imbarcare a Sète, in Francia; arrivati in Marocco siamo scesi dalla nave vestiti, abbiamo fatto una grande colazione marocchina e siamo partiti. Ecco, questo fascino al Dakar Rally è un po’ mancato”.
Dove invece l’AER può migliorare?
AB: “Sai che è davvero difficile trovare un difetto? Mangi bene, che non è una cosa secondaria in una gara come questa; e nonostante la struttura ridotta, l’immagine che hanno fatto girare non è stata male. Anche in fatto di sicurezza, nonostante ci fossero solo 50 moto c’erano tre elicotteri e non so quante auto mediche. E per farti capire lo spirito, puoi star fermo un giorno e poi ripartire: il pilota è messo al centro, per potergli dare il massimo delle possibilità di arrivare a Dakar”.
SA: “Dal punto di vista della sicurezza la AER non è seconda a nessuno, e anche il road book è perfetto. La Dakar è il top, ma loro non sono da meno. Un’altra cosa positiva? La mattina si parte alle 7.45, mentre alla Dakar ci si sveglia parecchio prima. È una gara più umana e per tutti, potresti anche allungare le speciali”.
Da quello che mi avete detto, anche se dovessero venire i top rider non potrebbero andare altrettanto forte essendo costretti a navigare davvero…
AB: “Alla Dakar hanno cercato di proibire google maps e le persone che ricostruivano le speciali. Questo perché negli ultimi anni, e io l’ho detto più volte, tu eri nel punto giusto e c’era sempre qualcuno che ti passava grazie al road book modificato: vedeva magari che c’era una stradina che permetteva di evitare una cordata di dune e prendeva quella. Quest’anno si sono accorti che c’era troppo divario tra i team ufficiali e il ‘popolo’, così hanno deciso che non si poteva più modificare il road book; ma qualcuno ha pensato di mettere i fogliettini sulla moto con le indicazioni alternative... A me spiace che Benavides sia stato penalizzato, ma sono sicuro che non sia stato l’unico ad avere i fogliettini, perché alla fine tutti cercano sempre di aggirare gli ostacoli”.
SA: “Se i team ufficiali venissero all’AER bisognerebbe evitare i map man, una cosa del resto già ben chiara nella testa dell’organizzatore, che vuole mantenere invariato lo spirito di avventura di una volta”.
Bottu, dopo la vittoria ti ho visto commosso…
AB: “Ero commosso per tanti motivi, anche perché ho perso mia mamma tre mesi fa. Ma c’è di più. Alla Dakar del 2013, con l’Husqvarna, mentre mi stavo giocando un podio il penultimo giorno mi è uscita la biella dal cilindro. Nel 2016, dopo una bella stagione in cui avevo vinto il Sardegna e il Merzouga davanti a Svitko e Farres - che giusto per dare dei riferimenti hanno poi fatto secondo e terzo alla Dakar - nel secondo giorno mi rompo il polso in trasferimento: vado avanti per la gloria ma rompo il motore a tre tappe dalla fine. Alla Dakar avrei potuto fare molto di più, ma alla fine per un motivo o per l’altro ho raccolto poco, e tante volte farlo capire alla gente è difficile. Per fare una Dakar da buona posizione tieni un ritmo, ma farla per stare davanti è un’altra cosa, e il rischio sale di dieci volte… guarda il mio amico Van Beveren negli ultimi due anni. È una gara crudele, perché poi per riscattarti devi aspettare 12 mesi. Per cui quando sono arrivato al Lago Rosa non mi sembrava vero: erano troppi anni che non vedevo il traguardo, e mi sono lasciato andare. Ancora oggi a parlarne mi viene la pelle d’oca. Anche perché a 43 anni, io corro ancora con il cuore”.
Simone, il tuo terzo posto è stato un grande risultato!
AS: “È stata una soddisfazione anche perché portavo in gara una moto costruita da me. Me la sono goduta, pur avendo fatto qualche errore… del resto non sono un pilota professionista. Vincere una tappa, poi, è stata pura emozione!
Pino Mottola
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