Moto
KTM: la tempesta perfetta
Da dove nasce la crisi di KTM? Cosa succederà al Pierer Group dopo la dichiarazione di insolvenza? Ripercorriamo gli snodi fondamentali della loro storia recente per capire come i punti di forza si sono trasformati in debolezze
1. Le origini
Della nascita di KTM si sa quasi tutto, tranne quel che significa la sigla. Viene aperta nel 1934 a Mattighofen, un minuscolo comune dell’Alta Austria, dall’ingegnere Hans Trunkenpolz: all’inizio è un’officina di riparazione di auto e moto e si chiama subito KTM; forse per “Kraftfahrzeug (veicoli) Trunkenpolz Mattighofen”. Ma nel 1953, quando viene fondata la società destinata a costruire moto, l’acronimo sta per “Kronreif & Trunkenpolz Mattighofen”, e Kronraif è un imprenditore entrato in società con Turkenpolz. Qualcuno sostiene invece che KTM stia per Kussin, Trunkenpolz and Moser: nella lingua tedesca ci sono decisamente troppe K.
Siamo nell’immediato dopoguerra e gli austriaci, deboli sia nell’agricoltura che nell’industria, tirano la cinghia. Come in Italia, i mezzi più popolari sono le moto: costano poco e rispondono bene alle modeste esigenze di mobilità dell’epoca. Trunkenpolz e Kronreif hanno fiutato l’affare, e vista la loro collocazione geografica iniziano subito a fare fuoristrada: nel 1955 le prime gare e già nel 1956, col pilota Egon Dornauer, KTM vince la Sei Giorni di Enduro che quell’anno si corre proprio in Austria.
Nel 1957 viene progettato il primo modello da cross, e visto che con i fornitori austriaci Puch e Rotax c’è già aria di scontro, la KTM RS monta un motore, guarda un po’, MV Agusta: corsi e ricorsi della storia.
L’idea di fare moto specialistiche è la fortuna di KTM, perché già nei primi Anni 60 si diffondono auto economiche come la Fiat 500 e le moto, da mezzo di utilità, diventano mezzo di svago. Molti costruttori vanno in difficoltà mentre KTM prospera, grazie anche alla spinta decisiva di due piloti-importatori: Arnaldo Farioli in Italia e John Penton negli Stati Uniti.
KTM cresce e nel 1971 realizza il suo primo motore 2T da competizione, ovviamente per il fuoristrada. Due anni dopo, nel GP di Francia di motocross, ai piloti russi Rulev e Moisseev rubano le moto (due CZ costruite in Cecoslovacchia), e KTM offre loro due sue moto. I russi accettano e chiudono davanti ai connazionali su CZ, convincendo i responsabili sovietici a lasciarli correre per KTM. Nel 1974 Moisseev è già campione del mondo di Motocross classe 250, portando a KTM il primo di moltissimi titoli mondiali.
Race on Sunday, sell on Monday e le cose vanno a gonfie vele. KTM spinge molto sulle corse e sull’innovazione: è la prima a montare due freni a disco sulle moto da cross, e dopo l’introduzione nel 1981 del primo motore raffreddato a liquido diventa leader nella produzione di radiatori. Nel 1978 apre la filiale americana e nel 1981 i dipendenti salgono a oltre 700, con un fatturato di 750 milioni di dollari.
Ma nel frattempo sono arrivati i giapponesi, che anche nell’off-road offrono prodotti all’avanguardia tecnologica, più affidabili e meno costosi. Molte aziende europee vacillano e la stessa Husqvarna, storica rivale di KTM, nel 1987 viene ceduta dalla proprietà svedese al Gruppo Cagiva. A KTM succede qualcosa di simile: dopo la morte nel 1989 di Erich Trunkenpolz, figlio del fondatore Hans e anima dell’azienda, il 51% di KTM viene acquistato da un fondo austriaco, che decide di fermare la produzione di moto e scooter per concentrarsi su biciclette e radiatori.
La decisione, drastica e non particolarmente felice, non riesce a invertire la rotta: l’azienda dichiara enormi perdite e dichiara fallimento, finendo in pasto ai creditori – essenzialmente banche. Queste decidono di dividere le quattro linee di business – moto, biciclette, utensili e radiatori – in quattro aziende separate. Per questo le biciclette KTM non hanno più niente a che vedere con KTM Sportmotorcycle GmbH se non, per l’appunto, il logo.
2. L'era Pierer
KTM Sportmotorcycle viene acquisita da KTM Motorradholding GmbH, una joint-venture guidata da un giovane investitore – all’epoca ha solo 32 anni – di nome Stefan Pierer. Ambizioso di indole e conservatore di vedute, Pierer è più o meno quello che oggi chiameremmo un ingegnere gestionale, che dopo aver lavorato per qualche anno nel campo del condizionamento fonda, nel 1987, la sua finanziaria Cross Holding con la quale si ripromette grandi cose.
Sotto la spinta di Pierer, KTM riparte. Riassorbe la divisione utensili, investe con decisione in ricerca e sviluppo e in macchinari per modernizzare la produzione, rilancia l’impegno sportivo e torna a mettere le ruote sull’asfalto con la Duke 620 del 1994, una motard stradale motorizzata con l’LC4, il monocilindrico più performante in circolazione.
La Duke nasce gialla ma nel 1996 diventa arancione, come rapidamente faranno tutte le KTM. Così ha deciso Gerald Kiska, un altro giovanotto più o meno coetaneo di Pierer che aveva iniziato a lavorare per KTM appena prima che fallisse. I due la vedono allo stesso modo su cosa debba diventare KTM: un brand sportivo, maschio, aggressivo. Di Kiska Pierer si fida così tanto da farlo entrare in società e dargli carta bianca riguardo non solo lo stile, ma anche la comunicazione e il marketing.
Kiska si mette al lavoro su linee anticonformiste, radicali, spesso criticate ma che sono a conti fatti una delle ragioni della crescita di KTM. Nessun’altra azienda sembra possedere la stessa chiarezza di visione e di linguaggio, a partire dall'uso dell'arancione che nel 1992 era un colore tipicamente Kawasaki. Ma Kawasaki lo utilizzava a fasi alterne e non per le sue moto da corsa, che erano verdi. Kiska, alla ricerca di un modo di far spiccare le KTM sui campi da cross e nelle concessionarie, valuta prima il giallo, che però giudica troppo caratteristico di Suzuki, e poi decide per l’arancione – pantone Orange 021C – applicandolo con una convinzione e una coerenza che lo hanno reso sinonimo di KTM, di fatto usucapendolo ai giapponesi.
Oltre a Kawasaki l’arancione lo avevano usato in molti, da Aprilia a Laverda; ma dopo la “cura Kiska”, l’arancione è solo KTM. Secondo Kiska è un colore che sintetizza l’atteggiamento indipendente della Casa austriaca, un mix di razionalità e irrazionalità che rispecchia bene l’Austria, il luogo d’incontro della razionalità tedesca con l’irrazionalità italiana. Vedremo più tardi che qualcosa di irrazionale probabilmente c’è anche nel modo in cui l’azienda è stata gestita.
Il sodalizio tra Pierer e Kiska, comunque, funziona alla grande: la gamma stradale si espande costantemente, sempre con modelli in linea con la filosofia KTM: naked, supermoto, Adventure dal sapore molto “off” e qualche sportiva. Aumentano anche le piattaforme: ai motori racing e all’LC4 si affianca il bicilindrico a V LC8; poi arriveranno i mono 4T stradali e il twin parallelo LC8c. Nel 2003 Stefan Pierer dichiara che KTM diventerà il più grande costruttore europeo entro 10 anni. Gli ridono in faccia.
Intanto nel 1995 si è comprato Husaberg, marchio off-road svedese fondato da esuli Husqvarna; Kiska fa subito suo il claim “Ready To Race”, perfetto per KTM. Husaberg sarà solo il primo dei molti brand destinati a entrare nel portafoglio del Gruppo: seguiranno Husqvarna, rilevata da BMW nel 2013 e subito spostata dall’Italia all’Austria, GASGAS acquisita nel 2019 e infine MV Agusta, acquistata in due tranches tra il 2022 e il 2024.
KTM cresce come un treno macinando record su record di vendite, fatturato e utili. Riacquista la divisione radiatori, si impone fra i leader di mercato in Europa e Australia, cresce negli USA e in Asia grazie soprattutto al traino del racing, dove con una faticosa ma esaltante rincorsa è riuscita a migliorare affidabilità e prestazioni delle sue moto arrivando a sfidare, e addirittura umiliare, la concorrenza giapponese: KTM vince ininterrottamente il Dakar Rally dal 2001 al 2019, diventa la moto da battere nell’Enduro e anche nel Motocross è sempre più competitiva, vincendo a ripetizione in MX2 ed MX3 e infine in MXGP, dove con Tony Cairoli diventa la forza dominante.
L’approccio KTM per l’off-road racing è basato sull’alto tasso di innovazione e sul vivaio, coltivato con una gamma che va dal minicross 50 alle 450 4T e una presenza in forze in tutti i campionati. Con lo stesso concetto, Mattighofen sbarca nel Mondiale Velocità dal 2003 con la 125, la 250, la Moto3, la Moto2 e, dal 2016, la MotoGP con tecnologia interamente propria per il motore V4 e scelte ciclistiche spesso controcorrente: telaio in acciaio e sospensioni WP. Nonostante gli investimenti il titolo non arriva, ma MotoGP a parte KTM non si è fatta mancare gli allori: sono quasi 350 solo quelli orange, senza contare Husqvarna, GASGAS ed MV.
Intanto, dopo Kiska, Pierer ha trovato un altro partner fondamentale in Dietrich Mateshitz, che negli stessi anni in cui lui sta risollevando KTM lancia, a pochi km di distanza da Mattighofen, la sua linea di bevande Red Bull che lo renderanno immensamente ricco. Dal 2003 Red Bull inizia a sponsorizzare gran parte delle attività sportive di KTM con un fiume di denaro che rende, ad esempio, il team austriaco uno di quelli col budget più alto in MotoGP. Un po’ amici e un po’ rivali, i due si trovano spesso a discutere dei propri successi, che purtroppo per Pierer vedono prevalere Mateshitz: senza investire un centesimo in tecnologia, Red Bull ha il doppio dei dipendenti e il doppio del fatturato di KTM.
Anche perché se Red Bull non sbaglia un colpo, non tutte le scelte di Pierer sono centrate: la X-Bow, tentativo di entrare nel mondo auto con una supercar anticonvenzionale, costosa da sviluppare e arrivata con altri investimenti sbagliati nel pieno della crisi finanziaria del 2008, mette l’azienda in ginocchio. Pierer è costretto a ritirare i team 125 e 250 dal Motomondiale e a cercare un socio industriale forte: lo trova nell’indiana Bajaj, che entra in KTM con una quota del 14,5% destinata a salire negli anni fino all’attuale 49%. Bajaj si occuperà di distribuire KTM in India e di realizzare la piattaforma 4T piccola (125, 200, 250, 390) a costi competitivi.
Ma superata la crisi del 2008-2009, KTM torna come detto a macinare record di vendite, fatturato e utili. Un successo che si riflette ovviamente sul successo personale di Stefan Pierer, nominato “Austriaco dell’anno” per l’industria nel 2006 e addirittura “Uomo dell’anno” in Austria nel 2014. Nel 2018 entra nella classifica dei miliardari di Forbes, con un patrimonio stimato in 1,2 miliardi di dollari, ottavo uomo più ricco in Austria. E le cose per lui sono senz’altro migliorate almeno fino a tutto il 2022.
3. La tempesta perfetta
Almeno fino a dicembre 2022, infatti, KTM è un’azienda modello. Negli ultimi 30 anni da quel 1992 ha un tasso di crescita medio (CAGR) del 15%, ha superato quasi indenne la pandemia e ha messo nel mirino i prossimi passi: visto il successo delle e-bike, diventare leader anche in quel mercato replicando la stessa strategia usata con le moto: design, marketing, racing.
Pierer, che possiede già il brand Raymon, decide di acquisire Felt, un marchio premium statunitense, e visto che non può usare il marchio KTM sulle bici, di sviluppare e-bike a marchio Husqvarna e GASGAS. Partono gli investimenti, tra cui una fabbrica-magazzino in Bulgaria che costa da sola 40 milioni di euro e stabilimenti per l’assemblaggio (CKD) in Colombia, Brasile, Argentina, Filippine. Si allestiscono squadre per sostenere l’immagine dei brand nelle gare più importanti su strada e in MTB.
I numeri ci sono, perché nel 2023 il Gruppo vende 381.555 moto e 157.358 bici. Peccato che la bolla generata dalla pandemia e dagli incentivi sia ormai scoppiata: il mercato delle bici di tutti i tipi è saturo, i magazzini traboccano, i prezzi crollano. Per Pierer è un colpo molto duro, e in poche settimane si decide di abbandonare le bici tornando a concentrarsi sulle moto: prima della fine dell’anno vengono cedute sia Raymon che Felt, restano soltanto le e-bike Husqvarna e GASGAS.
Ma la tempesta non sarebbe perfetta se non fosse su tutti i fronti. In modo tutto sommato inaspettato, c’è un calo anche delle vendite di moto in America e in buona parte dell’Asia. Tra il 2022 e il 2023 l’EBIT scende di un terzo, l’EBITDA di un sesto, l’utile dopo le tasse si dimezza. Il Free Cash Flow, una misura della salute finanziaria (utile netto – spese operative e in conto capitale), passa da praticamente zero – in linea con gli obiettivi – a -413 milioni di euro.
Questa passività è in parte frutto della decisione di KTM di sostenere i suoi fornitori e i suoi concessionari in difficoltà, evitando fallimenti a catena. Si annuncia che il 2024 sarà un anno “di consolidamento”, complicato dall’inflazione e dall’aumento dei salari. Viene presa la decisione di spostare parte della produzione ma anche dell’R&D in Cina (CFMOTO), in particolare per la fascia bassa e media. Non parliamo di molte moto: inizialmente la sola piattaforma 790 di KTM, circa 20.000 moto contro le oltre 200.000 prodotte a Mattighofen e le 150.000 monocilindriche stradali prodotte in India da Bajaj.
Ma non è finita qui. Siccome in borsa piove sempre sul bagnato, quando iniziano a diffondersi le prime notizie e i primi dati sulle difficoltà del Gruppo Pierer, alla borsa svizzera dove è quotato il titolo crolla. In parte per questo e in parte per un maggior ricorso ai finanziamenti, aumentano di molto gli interessi, che passano da 19 a 67 milioni. Il Gruppo è costretto ad aumentare le riserve, e per fugare negli investitori i timori di crisi si prodiga in dichiarazioni e lancio di nuovi modelli.
Arriviamo al 2024. Nel primo semestre, il trend negativo sulle vendite peggiora ancora: -21,2%. Arretrano tutti i brand, tranne MV Agusta che partiva praticamente da zero e CFMOTO, di cui KTM è distributore in buona parte dell’Europa. Il mercato europeo in realtà cresce del 5%, ma soprattutto nella fascia bassa dove KTM è poco presente, mentre calano gli altri grandi mercati. Simile l’andamento delle bici, che fa segnare un -23%.
Nel primo semestre dell’anno il fatturato del Gruppo cala di quasi un terzo, l’EBIT è negativo di quasi 200 milioni di euro e l’EBITDA di oltre 100 milioni. La ragione principale, dice il Gruppo, è la ristrutturazione del settore bici, che ha assorbito oltre 75 milioni. Ma questo non basta a spiegare un debito 10 volte più grande, a causa della sofferenza anche delle moto: -26,7% di fatturato, EBITDA quasi azzerato, EBIT negativo di quasi 80 milioni.
Se calano le vendite, bisogna aumentare i margini: la strategia diventa quella di focalizzarsi sul segmento premium. Sarebbe strano il contrario per un’azienda che sconta una logistica problematica e un alto costo del lavoro, ma un conto è dirsi e un conto è farsi.
Intanto viene anticipata l’opzione per acquistare il pacchetto di maggioranza di MV Agusta. Che forse è la goccia che fa traboccare il vaso ma è per l’appunto una goccia, perché il prezzo concordato è di soli 45 milioni, di cui 35 cash e 10 di quote di Pierer, più un aggiustamento non inferiore a 5 milioni legato ai risultati di MV fino al 2026. Il consolidamento di MV fa comunque aumentare sensibilmente i debiti. Il patrimonio scende del 20% e la liquidità a disposizione dell’azienda è meno che dimezzata, ma grazie alla fiducia delle banche e alle riserve, ancora al 30 giugno 2024 il Gruppo “si considera in una posizione finanziaria solida”. Gli investimenti anziché ridursi crescono da 151,7 milioni nel primo semestre 2023 a 169,6 milioni nello stesso periodo del 2024.
Ma se i costi di produzione restano costanti a fronte di un forte calo delle vendite, e in più si sostengono i fornitori e i concessionari con saldi, promozioni e incentivi, il debito non può che esplodere: infatti raddoppia ancora, da 775 milioni a 1,5 miliardi di euro. Il Free Cash Flow passa da -100 milioni a -600 milioni (1° semestre 2023 VS 1° semestre 2024): KTM ha la febbre alta. Se al 31 dicembre 2023 c’erano in cassa 820 milioni tra riserve e linee di credito, al 30 giugno sono ridotte a 310 milioni: oltre mezzo miliardo bruciato in 6 mesi.
Il resto è storia di questi giorni: il successo di Eicma con i 22 nuovi modelli presentati e lo stand sempre pieno, e pochi giorni dopo, il 30 novembre quella che è di fatto una richiesta di ristrutturazione del debito, che è salito a quasi 3 miliardi di euro probabilmente per l'iscrizione a bilancio di 130.000 moto già prodotte da Bajaj e ancora da pagare e quindi un debito, in un certo senso, "interno". In ogni modo, ristrutturazione significa chiedere ai creditori di accontentarsi di una parte di quanto dovuto: il minimo di legge è il 30%, probabilmente l'offerta sarà vicina a questo valore.
4. Il presente e il futuro
Come mai un’azienda che fa utili record per 30 anni consecutivi è messa in ginocchio da un solo anno andato male? Non è una domanda a cui sia facile rispondere: sono rimasti sorpresi un po’ tutti, dagli operatori di borsa agli appassionati, e il Ministro dell’Economia austriaco ha chiesto conto all’azienda di come sia stato possibile passare in così poco tempo da prospettive rosee a una crisi nera.
Gli ingredienti della tempesta perfetta li abbiamo visti, ma forse non dicono tutto di quanto successo a Mattighofen. Guardiamo l’unico Gruppo confrontabile con Pierer Mobility, il Gruppo Piaggio che ha una struttura tutto sommato simile: molti marchi in portafoglio, produzione in Europa e in Asia, presenza globale, intenso impegno sportivo e anche una dimensione paragonabile.
Anche il Gruppo Piaggio ha risentito del calo dei mercati, infatti sono scesi vendite e fatturato. Voci che per KTM invece aumentano, a quanto pare aggravando la crisi visto che il debito aumenta di molto e tutti gli indicatori di redditività si deteriorano, cosa che non succede a Piaggio che riesce invece a guadagnare di più vendendo meno.
Qualche domanda sulla gestione austriaca viene da porsela. Va bene rassicurare i mercati, ma perché giurare ancora a giugno che c’era in cassa liquidità sufficiente a far fronte alle difficoltà? Come mai anticipare l’acquisto di MV Agusta, previsto per il 2026, quando le cose già andavano male? Come mai acquistare (con Mateschitz) l’azienda di veicoli speciali Rosenbauer? Perché non dare a tutti un segnale evitando di distribuire dividendi, come di solito si fa in questi casi?
Ad ogni modo, del gruppo dirigente di Pierer Mobility non resta più nulla. Gli otto membri sono stati tutti rimossi e le banche, come nel 1992 i creditori principali, hanno messo a fianco di Pierer una figura di garanzia, Gottfried Neumeister.
Le banche chiedono anche a Pierer di intervenire con il suo patrimonio personale, che però è legato in larga parte agli oltre 25 milioni di azioni di Pierer Mobility, il cui valore si è ridotto a un decimo rispetto a fine 2022. Pierer senz’altro contribuirà di tasca propria come gli chiedono le banche, anche perché ha detto di essere disposto a tutto per salvare l’azienda che è la sua vita: ma difficilmente troverà il miliardo di euro che gli serve.
Tutti gli imprenditori sono ambiziosi a volte al limite dell’arroganza, e Stefan Pierer sostiene di essere l’unica persona in grado di salvare KTM. Ci è riuscito una volta, ma negli ultimi tempi le sue scelte sono state messe in dubbio: KTM continua ad avere una forte etica verso i concessionari, ma molti clienti si sono lamentati del servizio post-vendita, di un calo della qualità e anche dei prezzi.
A questo proposito, KTM ha sempre giocato una partita difficile, cercando di accreditarsi nel ristretto novero dei costruttori premium senza mai veramente riuscirci, nonostante i forti investimenti in tecnologia, attività sportiva e marketing, e nonostante l’acquisizione di nomi nobili come Husqvarna e MV Agusta. Mentre nell’off-road ha senz’altro vinto la sfida, riuscendo in molti mercati a vendere più dei giapponesi e a prezzi più alti, nel fondamentale mercato stradale non ha mai ottenuto i margini che sperava, sostenendo le vendite a suon di promozioni e incentivi.
Le politiche per fare profitto sono alla fine due: o vendi poco con alti margini o vendi molto con bassi margini. KTM ha cercato di vendere molto con alti margini, riuscendoci solo a sprazzi: per qualche periodo, con qualche modello, su qualche mercato. A fine 2023 il board ha riconosciuto che la politica della crescita a tutti i costi “non portava da nessuna parte”, ma ormai era tardi. Vendere tanto con margini bassi espone infatti a grossi rischi, perché le fluttuazioni del mercato possono erodere quella fascia di profitti che serve a finanziare spese come la ricerca, le corse, lo sviluppo industriale: questo è quello che è successo negli ultimi 12 mesi, e per un’azienda che ha sempre speso tantissimo come KTM il danno è stato catastrofico.
In questi giorni, e soprattutto nei mesi che seguiranno, l’azienda dovrà operare in modo il più possibile “normale”, confermare la fiducia dei clienti, per evitare che il panico faccia ulteriori danni. Difficile sapere chi sarà al comando: si parla di manovre di Pierer, anche con Mark Mateschitz, figlio di Dieter, per evitare che Bajaj prenda il controllo; ma comunque vada, sembra molto probabile che il grande capitolo di Pierer e Kiska si chiuda, e che buona parte della produzione si sposti fuori dall’Austria.
Finirà così quella che è tutto sommato la più grande anomalia dell’industria motociclistica: che il più grande costruttore europeo sia un’azienda collocata nelle montagne dell’Austria, con una logistica impossibile e un costo del lavoro elevato. Aspetto, quest’ultimo, che Pierer ha sempre criticato, tanto che ha recentemente ribattuto alla proposta di legge di ridurre l’orario di lavoro a 32 ore proponendo invece di aumentarlo a 41 ore, a pari stipendio, per salvaguardare la competitività del Paese. Forse non aveva tutti i torti.
Si sono letti commenti di tutti i tipi su KTM, che, come tutte le aziende di grande successo, si era attirata anche grandi invidie e molti nemici. Ma è anche un’azienda che ha sempre investito molto in ricerca, costruito oltre 200.000 moto in Austria, dando lavoro a tanti e usando soprattutto componentistica europea – Bosch, Conti, Brembo, Pirelli eccetera.
Non si può essere contenti del fatto che la produzione finisca in Asia, perché se questo è il destino di tutte le nostre attività industriali, il futuro dell’Europa e dell’Italia è veramente fosco. Come mi disse qualche anno fa un dirigente giapponese con cui parlavo di queste cose, “non possiamo pensare di avere un Paese di soli ingegneri”: non in Giappone, non in Austria, non in Italia. Bisogna invece sperare che, oltre a progettare le moto che ci piacciono, continueremo anche a costruircele.
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